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Riforma dei compensi dei giornalisti: “equi” per chi?

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- Le vicende politiche che animano il dibattito pubblico di questo agosto rendono il clima dell’estate certamente poco vacanziero. Troppa la carne al fuoco: spread, eurozona, spending review, legge elettorale, caso Ilva. Così, per una volta, il Parlamento è costretto a concedersi ferie ben più corte dell’abituale periodo di inattività agostana.

Mentre l’attenzione mediatica è concentrata sulle questioni più scottanti, passa quasi in sordina il percorso alle Camere del disegno di legge per l’equa retribuzione dei giornalisti. Il provvedimento, fortemente sostenuto dall’Ordine e dal sindacato dei giornalisti, si è arenato al Senato dopo aver ricevuto l’approvazione in sede legislativa della Commissione competente alla Camera.

Qualora venisse approvato, il testo prevedrebbe la costituzione di una Commissione per la valutazione dell’equità retributiva del lavoro giornalistico, composta da quattro membri designati dal Ministro del lavoro, dal Ministro dello sviluppo economico, dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa italiana, con il compito di definire, dunque, i requisiti minimi di retribuzione della categoria.

Il fine dichiarato è quello di porre freno ai fenomeni di sfruttamento di tanti giornalisti precari, talvolta miseramente retribuiti per tre o quattro euro lordi ad articolo. Tuttavia, come spesso accade, dietro l’apparente intenzione di voler rendere più equo il trattamento degli individui si cela un fine diametralmente opposto, che si serve dell’inebriante retorica egalitarista per passare sotto traccia e mostrare le cose per il contrario di quel che sono realmente.

In verità, il provvedimento servirebbe soltanto ad introdurre anche per l’Ordine professionale dei giornalisti la rigida barriera delle tariffe minime: quelle stesse tariffe che in altri ambiti professionali (si pensi a notai, avvocati) hanno dimostrato di servire da protezione legale a favore dei cosiddetti insider di una professione; un meccanismo che ostacola la concorrenza degli outsider – spesso, appunto, giovani e precari – impedendo loro di ritagliarsi una clientela con tariffe più convenienti per i consumatori.

Si intende, dunque, andare nella direzione opposta a quella dell’apertura al mercato e dell’abolizione di Ordini professionali, la cui unica ragion d’essere è quella di far valere il proprio peso politico per mantenere i privilegi di chi è già dentro, limitando il più possibile l’accesso a chi è fuori e allo stesso tempo costringendo gli outsider ad iscriversi agli albi professionali per non vedersi troppo penalizzati e tagliati fuori da protezioni che tutelano solo gli insider.

Una Commissione come quella che si intende costituire, designata da due membri dell’esecutivo e dai due organi di tutela degli insider del mondo dell’editoria, non sarebbe altro che un tavolo di concertazioni ove, sulla base di ragioni meramente politiche, si stabilisce il compenso minimo di un giornalista. Per le stesse ragioni politiche e sindacali, la Commissione alzerebbe fin troppo le tariffe minime, rendendo così molto più improbabile che una redazione – viste le acque in cui naviga l’editoria italiana – riesca ad affidarsi anche a collaboratori precari che, seppur oggettivamente sottopagati, riescono quanto meno ad avere un impiego per fare esperienza e sperare un giorno di essere regolarizzati, e sfuggire al ben più avvilente status di disoccupati.

A beneficiare di tutto ciò, sarebbero ancora una volta i giornalisti con il posto fisso, quelli che hanno avuto la fortuna di entrare nel mondo del giornalismo prima che il mercato decretasse il tramonto (a cui oggi assistiamo) di un modo vecchio e infruttuoso di fare giornalismo e di tutelare il lavoro dei giornalisti stessi.

I primi a non rendersi conto della farsa in atto – che speriamo vivamente resti arenata al Senato – sono gli stessi precari e i giovani che si apprestano ad entrare nel mondo del giornalismo, che sostengono il provvedimento come fosse la panacea di ogni male da cui il giornalismo italiano è afflitto. Un settore che viene irrigidito anziché liberalizzato non ha speranza di crescere e creare occupazione.

Introdurre dei criteri di equità nella retribuzione – ed è questo che i giornalisti precari non hanno capito – non significa liberare le forze necessarie ad incrementare l’occupazione del settore, ma soltanto a dividere la torta in fette uguali tra chi ha il privilegio di sedere al tavolo da più tempo e non permettere alla torta di diventare più grande, in modo che sempre più individui possano usufruirne.

Ancora una volta, insomma, si intende lanciare fumo negli occhi di quei tanti giovani che spendono migliaia di euro nella convinzione che, una volta frequentate le scuole di giornalismo e superato l’esame da professionista, abbiano accesso al mondo dell’editoria, per giunta con la garanzia di una retribuzione dignitosa.

Qualora venisse approvato, il disegno di legge prevedrebbe anche l’equa retribuzione come requisito per l’accesso a qualsiasi contributo pubblico in favore dell’editoria. Così, anziché abolire definitivamente una prassi che ogni anno grava sulle spalle dei contribuenti e subordina l’attività editoriale del paese ai fondi erogati dallo Stato, si preferisce limitare l’accesso ai contributi alle sole testate che incontrano i suddetti requisiti, tanto per assicurarsi che le redazioni siano del tutto costrette a tagliare fuori i precari che non possono permettersi di stabilizzare. La misura è coerente con un sistema, quale il nostro, che ancora sussidia l’editoria (anche qui dividendo tra prima e dopo Cristo, cioè tra imprese editoriali nate nella cuccagna della Prima Repubblica o sotto i vincoli della Seconda) ma è ugualmente sbagliata. Anziché abrogare le provvidenze e lasciare al mercato il compito di selezionare quali imprese editoriali, e quali giornalisti, meritano di “sopravvivere”, si introduce un ulteriore elemento di inefficienza, condizionando l’erogazione di un sussidio pubblico alla concessione di una specie di sussidio privato ai precari.

Una volta Winston Churchill disse che “il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’uguale condivisione della miseria”. Nel caso nostro, oltre alla miseria, si intende seminare disoccupazione.


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